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Tejas Yana nella Meditazione Relazionale

Appunti tratti da un discorso agli insegnanti, giugno 1994.

Se veramente desideri la pace muoviti verso questo intento, ma sappi che allora incontrerai la guerra. E dovrai vincere.

Per conquistare la vittoria tenditi nell’azione verso la vetta più alta, ma sappi che allora questa tensione si trasformerà in tremore per la paura della sconfitta. Se non sarai teso e tremante, vorrà dire che il tuo desiderio non era reale.

Desiderio e paura, tensione verso la vetta e tremore per le altezze, comporranno la tua battaglia. Quando avranno svolto il loro compito, se ne andranno, senza che tu rinunci alla meta.

La pace non è un luogo. La pace non è un pensiero. La pace non è un discorso. La pace è una sostanza che vive nel cuore dell’uomo che non ha fuggito la guerra. Il cuore di quell’uomo ha sostenuto ogni battaglia. In quel vuoto, la pace vive.

L’uomo che porta la pace nel cuore, porta la guerra nel cuore di chi lo segue.

 

L’Adi Shakti e la via del guerriero

La raffigurazione del Mandala che rappresenta la nostra Scuola include l’Adi Shakti al centro. È un simbolo pre-buddista molto antico all’origine di numerose vie che rappresenta tre spade, una ricurva verso destra, una ricurva verso sinistra e una a doppio taglio al centro, che accoglie il due nell’uno, generando una terza forza che trascende la doppiezza e la scissione insita in questo mondo intermedio retto dal dualismo. Le tre spade costituiscono il “primo potere”, la potenza che è presente nel principio, punto di partenza e di arrivo di un percorso di ricerca che va verso l’interno di se stessi, ricerca senza la quale non è possibile alcuna conoscenza dell’altro, che a sua volta favorisce l’indagine su di sé e così via, senza fine, fintanto che l’uno si possa ricongiungere con il due, in quell’unica spada centrale a doppio taglio. Questo processo nella Scuola è chiamato Meditazione Relazionale.

La spada è simbolo dell’evoluzione cosciente, dell’espansione della vita nella materia, è la forza che sa essere spietata nella sua compassione, che taglia definitivamente il nodo dell’ignoranza e del dualismo inconsciamente voluti. L’Adi Shakti rappresenta per noi la via del guerriero.

Un guerriero è colui che ha presentificato in sé la vita e la morte, ed è divenuto consapevole che l’impotenza e la morte sono insite nella vita: si è abituato così a dare valore ad ogni attimo, vivendolo intensamente. Se la morte e il buio sono negati, ogni rapporto con se stessi e con gli altri risulta falso. Vicino alla morte gli uomini sono più veri, perché hanno meno voglia di imbrogliare se stessi. Infatti se fossero consapevoli di una morte imminente, essi sarebbero già morti alle immagini della loro falsa speranza e al loro finto senso di potenza.

Così chi accetta la propria impotenza senza scappare, e senza farsene un alibi, è finalmente libero e vero; ma poiché a quel punto avrebbe conquistato la morte rimanendo vivo, in quel momento la sua coscienza diverrebbe duratura.

Un guerriero nel combattimento ha come obiettivo il tentativo di lottare a vantaggio dell’intento che lo guida e di chi ne ha bisogno, e quello di vincere, senza morire e senza uccidere; egli si prepara alla battaglia indossando i suoi vestiti con cura perché sa di trovarsi al cospetto di un’imprese impossibile: in ogni suo movimento c’è disciplina. Nel combattimento bisogna sapersi difendere e per far questo occorre divenire capaci anche di attaccare per impedire che l’altro si danneggi, tentando di danneggiarti. Non permettergli di riuscirci è un esempio di compassione. L’obiettivo è  includere in sé la volontà di anticipare che la distruttività si manifesti; per questo occorre accoglierla e digerirla, il che significa imparare a riconoscere e trasformare, incanalandola in percorsi interattivi e costruttivi, l’energia dell’altro.

Comanda chi conosce senza identificarsi in alcunché, perché ha messo la propria conoscenza al servizio della verità e non delle proprie pulsioni, anche se è partito da lì: ciò comporta aver sviluppato la neutralità in azione, che in Tejas Yana viene chiamata impeccabilità del guerriero. C’è bisogno di calibro e la disciplina è lo strumento per crearlo perché insegna a rilassare nella contrazione piuttosto che cercare di evitare ogni fonte che la possa generare. Ci sono persone che hanno imparato fin da piccole a condizionare il proprio organismo con sintomi di chiaro stampo psicosomatico ogni volta che si affaccia la tensione per l’ambivalenza. Non hanno voluto imparare a trasformare la tensione in intensità unificante, creativa ed interattiva. Una pratica e una disciplina costanti sono elementi imprescindibili per  iniziare e proseguire nella Via e verificare fin dall’inizio i propri  meccanismi oppositori. Se la disciplina è scelta, pratica, vita e filosofia si fondono insieme: allora la vita intera diventa un allenamento,  e  quell’allenamento conferisce unità e compattezza alla vita.

Affilare la lama

Una via di coscienza non può che includere la via del guerriero, come abbiamo detto definita nella nostra Scuola Tejas  Yana.

È la via della lama affilata. La lama si affila con l’attrito, il quale si genera ogni volta che due polarità interagiscono,  ogni volta che la meta frappone i suoi ostacoli. Perché quindi biasimarli se sono necessari? Vivere da uomo significa saper creare continuamente le condizioni per accogliere e integrare la coesistenza di polarità eterogenee in attrito fra loro. È uomo colui che sa contenere in sé due animali nemici. La tendenza sarebbe quella di scappare dalla sofferenza generata da quell’attrito, ma chi riesce a restare consapevole, ottiene un triplice risultato: quello inerente lo scambio tra le due polarità che in quanto tale genera coscienza, maggiore energia e materia più sottile; un aumento della consistenza psichica derivante dal sostenere la tensione; la scelta a priori di non scappare più da se stessi, cioè lo sviluppo di un contenitore fondamentale all’evoluzione, l’impegno autonomo ( non indotto o simulato!). L’occhio di quell’animale diverrà allora umano, ma restando insediato nella sua natura animale, conferirà a quell’organismo una dimensione divina. Ecco il risultato dell’attrito, dell’aspirazione e dell’impotenza acquisite ed accettate.

La pratica di una disciplina fisica mirata costituisce l’impegno più semplice con cui cimentarsi; evidenzia l’effettiva vicinanza e la coerenza tra quello che uno dice e le azioni che compie, mette alla prova la tenacia nel perseguire un proposito attraverso il contatto con i propri limiti fisici, la voglia di superarli e la paura di non riuscirci. Tenere il punto consente di sviluppare impeccabilità, caratteristica senza la quale l’accesso a spazi più ampi di quelli esplorabili da chi vive comandato dall’automatismo reattivo, sarebbe pericoloso. Ecco perché è tutelante quell’opportuno senso di immobilità fastidioso che misto ad impazienza a volte ci sopraffà: l’impeccabilità non è ancora parte del nostro modus vivendi.

La pratica si basa sull’uso di tecniche che potenziano il contatto, che si sviluppa nel silenzio dell’esperienza scelta e nell’autonomia interiore della Meditazione Relazionale: in Tejas, Vairagya ed Ekatva Yana. Ekatva, a differenza delle altre due, apparentemente si mostra nell’individualismo di una pratica solitaria, e a differenza delle altre due non sottolinea l’importanza della relazione, ma in realtà finché quella solitudine non riconosce e non introietta il due, di Ekatva non si può parlare, e nemmeno semplicemente di yoga in quanto unione. Ciò che fa muovere l’essere umano nell’esistenza è il suo irrefrenabile desiderio di contatto e, al tempo stesso, un enorme terrore di contatto. Andare oltre la paura di contatto  significa imparare a vederla, cosa non facile, ma il processo che porta ad accettarla è ricerca di completezza, ricerca di felicità, ricerca della radice.

Praticando Tejas Yana si tenta di disequilibrare l’avversario, facendo apparire a lui e agli altri membri della Scuola, dall’evidenziazione dei suoi equivoci abituali, i punti di vulnerabilità e al tempo stesso di copertura di quella vulnerabilità; entrare con un soffio di energia nella breccia apertasi includendo in sé la disarmonia evocata senza farsene turbare, e rimanere in armonia con se stessi. Si entrerà così in uno spazio di calma interiore che consente di anticipare gli attacchi piuttosto che evitarli, dirigendosi verso il luogo più confortevole dove la competizione sia stata contattata, costruttivamente impiegata e trascesa.

La pratica di una disciplina fisica appropriata permette, fra l’altro di verificare quanto si tenga effettivamente ad una ricerca, ricerca che è reale nella misura in cui si accetta che la meta non possa essere conosciuta e condivisa già prima di partire, e questo mette in rilievo la funzione della Guida.

La Funzione della Guida

Maestro, in giapponese, significa anche nato prima. Più intensamente si vive nella propria interiorità, più si è vecchi. La vecchiaia, l’esperienza della diminuzione della forza con il conseguente vissuto di impotenza, contribuiscono alla competenza dell’insegnante.

Un Maestro è tale quando è utile nel sostenere una volontà di realizzazione: perché possa insegnare occorre che si sia sviluppata recettività in chi lo segue; è l’attitudine dello studente che consente all’insegnate di manifestarsi. Una Guida insegna solo se esiste  una richiesta intensa e aderente, che si costruisce in anni di pratica seria. In quella fase chi guida, nell’attesa di manifestarsi, si sta già manifestando.

Ciò che un Maestro insegna non è la realtà, ma l’imparare a conoscerla e sostenerla, e può far questo unicamente con chi ha capito di non saperlo fare e di averlo solo finto, e di quella finzione soffre.

In una relazione di apprendimento è sempre necessaria la condivisione di elementi di semplici e concreti  che divengano interattivi tra chi insegna e chi apprende. In quel rapporto si possono vivere le esperienze che fungono da canale all’insegnamento.

La Guida mantiene una forte pressione sullo studente, che sviluppa nei suoi confronti sia identificazione sia senso di persecuzione, sia amore che odio. Lo studente è sotto pressione perché si cimenta con la realtà dei propri limiti, ma una volta vistosi visto, accettato per quello che è, e malgrado ciò ancora più sostenuto nel suo percorso evolutivo, non spreca più preziose potenzialità nel tentare di nascondersi ribadendo in forme astute e nuove vecchi concetti e sistemi di vita; l’io a cui è avvezzo si sente stretto, ma grazie a ciò la sua coscienza si sente libera di vivere in un’energia superiore che la guida, la rinforza e la contiene.

Il Maestro trasmette il massimo d’intensità relativa allo studente, perché sa come non sprecare energia. Grazie a quell’intensità può verificarsi uno scuotimento dell’individuo dalle fondamenta, una morte, una rinascita ed una rifondazione. Un’inversione di rotta rispetto alla tendenza automatica a perpetuare le proprie illusioni mediante la continua acquisizione di tecniche e concetti sempre nuovi, che può essere vissuta  come una liberazione o come una persecuzione a seconda della nostra attitudine: mistificazione o contatto crescente e reale.

La Guida usa due forme di comunicazione: la sincronia e l’interferenza. Tramite la sincronia amplifica l’energia nella relazione creando uno spazio d’incontro tra sé e l’allievo; mediante l’interferenza disequilibra lo studente e contenendo la disarmonia del contatto evocato nella propria armonia, gli permette l’inizio e la continuità del processo. Più alto è lo squilibrio che fa emergere, più elevato deve essere il suo livello d’armonia interiore. La sperimentazione di questi principi inizia, nella sua semplice profondità, proprio attraverso l’assidua pratica di Tejas Yana.

Compito della Guida è tenere sveglio chi lo segue, che vive addormentato e identificato nel proprio sogno. È quasi impossibile svegliarsi da soli. La tendenza all’addormentamento e al sonno è propria dell’uomo, per un naturale desiderio di evitare il contatto con la sofferenza legata alla visione di aspetti di sé che non si vogliono integrare, e con l’esposizione personale che la testimonianza della propria gioia comporta: quella complessità spaventa, eppure è reale. Per svegliare uno studente non vi è altro modo che rendere insopportabile il suo sogno e, attraverso una pratica intensa, specifica e accurata, consentirgli un normale vissuto di impotenza. Se questi non cede alla voglia di fuga, e rimane ancorato all’esperienza senza indulgere in un pedissequo servilismo nella Scuola, si crea uno spazio di osservazione interna che determina il cambiamento di visuale. Ciò che prima veniva considerato un problema non è più visto tale e da quell’accettazione emerge ampiezza, chiarore e armonia.

Se lo studente sostiene la pressione cui è sottoposto e non cede, l’unico modo per tirarsi fuori dai pasticci in quell’attrito, è spiccare un salto compiere un gesto di coraggio. Ciò che si verifica non è un semplice cambiamento di livello di comprensione, ma la caduta di un diaframma che protegge con un’illusione la paura di una semplicità intuita. Se la ricerca è autentica, a ciò corrisponde un vissuto di apertura e di leggerezza. Gli altri si sentono minacciati e si rabbuiano.

Amare il viaggio significa costruire la forza per reggerlo.

La lentezza del processo non deve corrispondere ad una timorosa inerzia ma a un’accuratezza che è il risultato della massima ricerca di velocità: occorre osservare mille foglie, senza distrarsi da nessuna, per aprirsi all’interezza della visione.

Amare il viaggio significa costruire la forza per reggerlo, significa essere disponibili a vivere l’inevitabile bruciante messa in discussione del ferreo inconsapevole attaccamento alla propria personalità ed ai propri automatismi re attivi, perché a quel punto avvertiamo con forza l’attrazione dell’evoluzione e dei cambiamenti  insiti in un viaggio del genere. Significa arrivare a ricevere un colpo o un sorriso ed integrarli entrambi perché sono veri. Su quel realismo si crea un ponte, una connessione tra due esseri umani in un rapporto che in quanto accogliente consente un’evoluzione, e, se permane l’attitudine adatta, anche un’elevazione.

È compito della Guida sollecitare nei modi più imprevedibili l’ego abitudinario e re attivo dello studente quanto basta per creare uno squilibrio, e attraverso questo una maggiore coscienza. Si tratta di piccoli risvegli, piccoli scossoni, piccole illuminazioni. È fondamentale che lo studente, in questa fase del lavoro mantenga costante il massimo livello di energia che ha sviluppato nella Scuola, attraverso tutto i contesti da essa offerti e impiegati.

Nel momento poi in cui lo studente arriva in contatto con una resistenza che non vuole lasciare, avverte un senso di appesantimento e di sofferenza, cui segue sempre un restringimento della coscienza: la difesa della propria immagine rende stanche e stupide persone dotate di grande energia e di brillante ingegno. A quel punto, spesso, si verifica una fase di interruzione nel processo di apprendimento, pausa che va vista non solo come un ostacolo, ma anche come una protezione per una coscienza non ancora pronta a procedere oltre. Ma se l’attaccamento alla limitazione venisse negato, anche il proprio autentico desiderio di oltrepassarlo verrebbe vissuto con un’adesione pedissequa o in modo oppositorio, e quindi falso. Solo chi è in contatto con l’insofferenza per la propria limitazione riesce ad entrare in contatto anche col proprio desiderio di ampiezza. È un momento delicato e bisogna fare attenzione a non perdere l’aggancio con l’Intento perché poi è difficilissimo ritrovarlo, a meno di non inventarselo.

È fondamentale, nella relazione tra studente e Guida, mantenere l’assetto. Temere la Guida non è soltanto segno di paura, ma di aver raggiunto l’intensità sufficiente per vedere e riconoscere quell’energia, rispettandola. Se si conquista il privilegio di questa chiarezza, si sentirà spontaneamente il bisogno di proteggerla da chi non la vede. Chi la testimonia e la difende proteggerà se stesso, perché quell’energia è parte della propria vita.

È in questa attitudine che Tejas Yana assume il significato più solido di difesa e protezione.

Ma anche se per ora il concetto non vi sembra pertinente, non scordate mai che il contatto con la Guida è nella Via.

La competenza e l’attitudine.

La definizione di Guida, e l’onere insito nell’assumersi questo impegno, servono a chiarire fin dall’inizio che l’obiettivo del lavoro non è semplicemente aumentare le competenze dello studente nella gestione  dei suoi rapporti o nella buona esecuzione di tecniche o nella loro trasmissione. L’aumento di competenza è finalizzato all’andare oltre, oltre il valore conferito all’ignoranza e alla competenza. A parità di competenza, ciò che incide è l’attitudine: è il bisogno d’ampiezza che rende il desiderio di prendersi cura di qualcuno. Se invece la competenza è al servizio di un’attitudine bloccante, che tende a conservare immutate nel tempo l’immagine di sé che si vuol mantenere e le abituali funzioni nelle proprie relazioni, diviene una perizia deleteria ed allora è meno velleitario e molto più sicuro possederne di meno. Infatti, il desiderio di avere potere nei rapporti per amplificare la propria immagine, e quello di usare il potere della propria immagine per favorire dei rapporti profondi e veri, rappresentano due direzioni opposte, per niente compatibili.

La forma è ciò che si mostra, ma l’obiettivo è trasmettere ciò che genera la forma e si è vestito di essa. Se si vuole pescare si cerca l’esca adatta, ma non la si confonde col prendere il pesce. Il filo che tira il pesce in superficie imprime la direzione.

Il coraggio e la conoscenza

Entrare in uno spazio più ampio richiede conoscenza e coraggio. Spesso chi ha la conoscenza non ha il coraggio per agire, e spinge all’azione chi non ha conoscenza ma solo voglia di vedersi e di farsi vedere. Il coraggio senza conoscenza è incoscienza. La conoscenza è il risultato di un osservazione distaccata. La coscienza senza coraggio è inutile. Il coraggio è la capacità di vivere rischiando di esporsi in azioni coerenti con la propria conoscenza. L’unico modo di vivere è camminare nel mondo come un guerriero che va incontro alla battaglia. L’evoluzione avviene attraverso l’assunzione di rischi crescenti, ma chi rischia è soltanto l’io, la pelle del serpente, il vestito del re. L’intelligenza della natura fa sì che l’io, le prime volte che rischia l’attaccamento a se stesso, perda, in modo che impari prima a elaborare le esperienze più facili. Il calibro umano costruito nel sostenere le sconfitte senza demordere, sarà poi d’importanza vitale nel sostenere il ritmo di crescita impresso dalle vittorie. Poiché il segreto dell’evoluzione è racchiuso nella contemporaneità di partecipazione e distacco, e poiché è più facile ottenere il distacco dall’identificazione nella sconfitta piuttosto che nella vittoria, le sconfitte iniziali sono di buon auspicio. Il lamento e l’autodenigrazione sono strade in discesa, mentre affermare “sono capace e competente ad aiutarti”, è spesso più difficile e responsabile; eccezion fatta, evidentemente, per le pagliacciate. Aderenza e continuità del processo sia nella partecipazione che nel distacco.

Essere in una via di ricerca a volte comporta il trovarsi di fronte ad un muro per anni, per tutta la vita, senza demordere. Coloro che hanno conosciuto tutte le sconfitte, non inventandosele, ma accettandole quando si presentavano, sono i vincitori, e solo loro hanno l’onore di inchinarsi di fronte alla vittoria. Sono i graziati perché hanno toccato tutte le disgrazie in cuor loro, e solo loro hanno l’onore di ringraziare la grazia. Quelli che hanno fede sono coloro che hanno perso tutte le speranze, e solo loro hanno la forza di onorare la speranza con la fede. Entrare in uno spazio più ampio richiede trasparenza, che è il risultato di un fuoco di passione, angoscia, sofferenza ed entusiasmo. La chiave è la coscienza che dà spazio a ciò che si manifesta, comprendendo che accettare non significa indulgere, bensì vedere senza riserve sia il proprio attaccamento che la propria repulsione. Questi sono i presupposti necessari per un agire consapevole, totale e distaccato allo stesso tempo, un’azione che è meditazione.

La Meditazione Relazionale è parte integrante del sistema di apprendimento normodinamico e rende possibile che il Mandala si manifesti. È quindi sia obiettivo che strumento per ulteriore conoscenza e per più alto coraggio, fino alla meta. Spazio che molti chiamano morte e alcuni chiamano Vita.