Processi di integrazione, trasformazione e crescita.
(tratto da un intervento nel corso di una giornata di studi S.I.N.D. Societa’ Italiana di Normodinamica)
Che la meditazione nell’insegnamento di Paolo Menghi rivesta un ruolo centrale non è solo un modo per introdurre il discorso. Essa costituisce realmente il fulcro del suo insegnamento. “La meditazione – sostiene infatti Paolo Menghi – è la più grande rivoluzione mai esistita”. Il suo approccio alla meditazione è stato multidisciplinare e multidimensionale. La meditazione silenziosa, la sadhana, la meditazione relazionale, il canto, l’uso del mantra, il rapporto con la guida, il karma yoga, l’uso del corpo, l’uso delle emozioni, l’esperienza devozionale costituivano un sistema articolato e complesso. Ognuno di questi temi e di queste dimensioni merita di essere approfondito. Io ne toccherò alcuni nella mia relazione.
Una premessa mi sento di dover fare. Ognuno dei suoi studenti probabilmente trovava maggiore affinità con l’una o l’altra di queste dimensioni ma l’approccio normodinamico le raccoglieva e le articolava in un tutto unitario. Nell’occuparci del metodo ND non dobbiamo dimenticarci della complessità di questo sistema perché, se abbiamo presente questo, possiamo approfondire ogni singola dimensione senza rischiare una riduzione o un impoverimento.
Al contrario una riflessione sulle singole dimensioni, se le sviluppiamo su quello sfondo, può contribuire a riguadagnare parti della complessità che abbiamo sperimentato e spero anche a riconnetterci con una esperienza vissuta.
Quello che porto è una riflessione a partire dalla mia esperienza personale e vuole essere un contributo alla identità metodologica del metodo ND. Parlerò di alcuni dei principi che guidano il mio lavoro nelle classi di yana, in quelle di meditazione e di meditazione relazionale e nel partecipare al progetto Mandala.
La mia prima esperienza sistematica con la meditazione è stata lo studio della meditazione vipassana. L’ho studiata e praticata per alcuni anni. Quando sono arrivato al Mandala e ho conosciuto Paolo Menghi ho trovato nel suo insegnamento il contenitore dove quella esperienza, che per me era stata estremamente significativa, poteva collocarsi e svilupparsi. Quella pratica dunque trovò nell’esperienza normodinamica non una alternativa ma piuttosto un campo dove potersi integrare. Così la pratica della meditazione di consapevolezza ha continuato a costituire per me non solo un bagaglio di esperienza, ma uno strumento che nella multidimensionalità del metodo Normodinamico trovava respiro e nuovo senso. Trascurerò intenzionalmente i temi sui quali da quella pratica, nell’ambito in cui io l’ho seguita, non ho avuto risposta alle mie domande e mi concentrerò sugli ambiti in cui è stato possibile una integrazione e sui modi in cui la meditazione vipassana stessa possa essere usata per favorire processi di integrazione, trasformazione e crescita della persona nella cornice Normodinamica.
Vorrei iniziare leggendovi due brevi aforismi di Paolo Menghi a facendo alcune considerazioni a partire da quelli. Il primo: “ Finché il silenzio interiore non è generato al comando del proprio intento non è possibile imprimere una direzione al cammino verso la libertà.”. E c’è un altro aforisma altrettanto importante e illuminante sul suo modo di intendere la meditazione: “La meditazione permette di divenire coscienti della propria coscienza e questo è l’inizio di un cammino meraviglioso.” Approfondiamo questo concetto.
Il mondo, gli eventi che viviamo, con cui entriamo in contatto non sono gli eventi in sé ma il risultato dell’incontro di stimoli esterni e mondo interno. Quello che si produce nel nostro sentire è un simbolo, una rappresentazione di quegli eventi. Gli stessi eventi se si incontrano con menti diverse o con la stessa mente in diverse condizioni danno luogo a fenomeni diversi. E’ qualcosa con la quale non è difficile essere d’accordo ma che è invece molto difficile avere presente nella vita di ogni giorno. Siamo infatti testardamente propensi a considerare le cose come se di per sé avessero quelle caratteristiche che siamo noi ad attribuirgli. Viviamo così come vittime delle circostanze pur essendone invece i costruttori. E in questo modo inoltre autolimitiamo enormemente il campo delle scelte possibili.
Il nostro apprendere la realtà esterna e interna, ogni cosa, dai dati sensoriali, ai segnali emotivi, alle relazioni interpersonali, tutto questo è condizionato dallo scenario interno nel quale si cala. Ci sono variabili momentanee ma quello che più ci interessa in questo momento sono i percorsi preferenziali, le propensioni e le tendenze. Questi sono il frutto di fattori biologici (ereditati, legati al genere o altro), da fattori ambientali (famiglia, educazione, relazioni nell’età evolutiva) e dai rinforzi che i nostri comportamenti, condizionati da queste due tipologie di fattori, accumulano nella nostra esperienza quotidiana.
1) Nasciamo con un corredo genetico che influenzerà senz’altro il nostro modo di percepire e rappresentare il mondo. Nasciamo femmine o maschi, sani o malati, abili o disabili. Questo è il primo condizionamento importante le prime variabili di cui va tenuto conto.
2) Poi siamo sottoposti ai cambiamenti, alla formazione che verrà sollecitata, accompagnata, stimolata o, al contrario penalizzata, dalla relazione con le nostre figure di riferimento primario, i nostri caregiving. Sono caratteristiche che porteremo con noi per tutta la vita. La capacità di empatia, di entrare in risonanza con gli altri e la capacità di riconoscere e condividere i propri stati d’animo sono fortemente influenzati da quelle relazioni precoci. Il cervello è l’organo che, alla nascita, è maggiormente indifferenziato e questo rende facilmente comprensibile come il primo periodo della vita sia di importanza fondamentale per la formazione dell’individuo. E’ proprio in quel primo periodo che si formano le strutture fondamentali della mente umana, che si iniziano a creare i primi modelli di rappresentazione della realtà, di noi stessi, degli altri e della relazione che abbiamo con loro. C’è un libro, di cui Daniel Siegel è coautore, si intitola Errori da non ripetere in cui tra l’altro si mostra come la consapevolezza, la conoscenza della propria storia personale possa essere un utilissimo mezzo per fornire ai propri figli un ambiente affettivo relazionale adeguato. Un altro testo interessante per approfondire questo tema (ce ne sono molti) è Sviluppo affettivo e ambiente di Winnicot in cui l’autore propone la definizione di ‘madre sufficientemente buona’. Sono letture molto interessanti che mi sento di consigliare.
3) C’è poi l’esperienza che facciamo ogni giorno. L’esperienza implica la attivazione di milioni di cellule cerebrali. Il numero delle cellule nervose nel cervello è superiore ai cento miliardi e ciascuno di questi è connesso attraverso circa 10000 sinapsi con le altre. Ogni evento esperienziale da luogo ad una attivazione energetica di gruppi di neuroni. Ogni sensazione, percezione, ogni emozione, ogni pensiero corrisponde ad una scarica energetica nel cervello e, attraverso questa attività, alla creazione di modelli di rappresentazione della realtà stessa. Ogni volta che ripercorriamo un medesimo itinerario ne aumentiamo la forza e moltiplichiamo le possibilità che quello stesso itinerario possa essere ripercorso di nuovo. In questo modo si coltivano tendenze personali, abitudini e stili di comportamento, limitando di fatto la realtà possibile in un numero limitato di possibilità. Ho letto una bella metafora di questo processo. Suonava pressappoco così: Immaginate di essere in montagna, su un prato all’inizio della primavera. Siete i primi ad attraversarlo in questa stagione per arrivare su un crinale dal quale si gode una bella vista sulla vallata. L’erba è alta e procedete con incertezza. Al vostro ritorno, per facilitarvi il cammino ripercorrete la stessa strada percorsa all’andata. Ci sono meno intralci, è più semplice. E il vostro stesso percorso sarà ugualmente seguito da chi nei giorni seguenti si recherà su quel crinale e così giorno dopo giorno si creerà un sentiero e sarà un percorso preferenziale per molti e più sarà percorso più diminuiranno le probabilità che qualcun altro si impegnerà nel percorrere itinerari alternativi. Processi analoghi si svolgono nella nostra mente plasmandola. Questa capacità viene chiamata neuro plasticità, la capacità del cervello di creare collegamenti e rinforzare i collegamenti esistenti. E, insieme a questo, quella di disattivarne altri, di lasciarli inesplorati. Queste tendenze, abitudini, propensioni hanno spesso origine nel passato, anche molto remoto, e svolgono la loro funzione per gran parte al di sotto del livello di coscienza. Questo fatto le rende particolarmente potenti e condizionanti. Esse condizionano pesantemente la percezione stessa della realtà, che è la realtà come noi la esperiamo, e limitano al tempo stesso la nostra possibilità di scelta. Non dobbiamo neanche pensare che sono tendenze che necessitano poi di lungo tempo e numerose ripetizioni per istallarsi. A volte sono processi molto rapidi.
Paul Watzlawick, a questo proposito, riporta i risultati di un esperimento compiuto con un cavallo in una stalla-laboratorio. Si suona un campanello e si da la scossa al pavimento. Il cavallo alza la zampa. Ben presto quando sentirà il campanello alzerà la zampa per evitare la scossa. Tutte le volte che lo farà anche quando smetteremo di dare la scossa avrà una conferma della validità del gesto: alzare la zampa gli evita la scossa. Ha acquisito un sintomo nevrotico. Molti esperimenti sono stati fatti mostrando come superstizioni, fobie e altro sono il prodotto di un apprendimento magari viziato dalle circostanze ma comunque una risposta adattiva all’ambiente. Tutto questo è come sappiamo materia privilegiata dell’approccio comportamentista alla psicologia umana e nel corso del secolo scorso questo approccio si è sviluppato forse fino all’estremo con la PNL. Rifiutare la introspezione, concentrarsi esclusivamente sull’aspetto fenomenologico, sulla relazione tra stimoli e comportamenti ha comportato sicuramente una riduzione di prospettiva nell’approccio all’essere umano, ma ha anche promosso una attitudine di studio che nel corso del tempo ha coinvolto una serie di discipline dalle neuroscienze all’informatica, dalla cibernetica (la scienza che studia i fenomeni di autoregolazione, automatismo e ad attività) allo studio sull’intelligenza artificiale e altre. Da tutti questi contributi si è pervenuti ad un approccio più integrato, meno settario e questo non è un male. Il Dalai Lama stesso ha promosso convegni e studi in cui queste discipline potessero trovare una attitudine sinergica e potessero in qualche modo concorrere a verificare, rinnovare e vivificare gli approcci buddhisti tradizionali.
La meditazione, nella sua accezione di meditazione di consapevolezza, propone un training mentale che a partire dai processi corporei mira a risvegliare la consapevolezza degli stessi. Essere consapevoli del respiro, delle sensazioni, delle posizioni del corpo disattiva quella automaticità che crea la base per potenti e sconosciuti condizionamenti e rinforza quelli esistenti.
Uno studente al suo primo approccio con la pratica scopre che la sua mente non tace mai e che vive di vita sua propria, che non si presta per niente a fare ciò che noi vogliamo che faccia. Facciamo una esperienza di fuori controllo, di non essere noi a dirigere.
Mi sento in dovere di fare una notazione sulla sofferenza e il desiderio di fuga e di oblio. La sofferenza psichica è il movente principale di chi si accosta alla psicoterapia e alla meditazione. Quest’ultima, in particolare, richiama chi, attraverso il training mentale, la capacità di concentrazione vuole estraniarsi, evadere, fuggire. E’ una istanza comprensibile ma fondata su aspettative che sono destinate per lo più a rimanere disattese. Si possono certamente avere dei benefici dalla pratica della concentrazione ma sono per lo più transitori se non momentanei. E’ ormai diventato un assioma nell’universo buddhista quello di considerare che il nirvana è il samsara e che la liberazione corrisponde ad una rivoluzione della percezione e non alla migrazione verso qualche dimora celeste. La tematica, e il fraintendimento, con cui mi sono principalmente misurato nell’esperienza di insegnare la meditazione nelle carceri è stato probabilmente questo.
Nel cercare di essere consapevoli, ad esempio del respiro, facciamo capo ad una facoltà assolutamente propria della mente stessa ma che rimane per i più, senza un addestramento specifico, inesplorata e rudimentale. La facoltà della mente di guardare se stessa. Non solo respiriamo ma possiamo essere consapevoli di respirare. Non solo abbiamo una sensazione o siamo attraversati da un pensiero, ma possiamo essere consapevoli che questo sta avvenendo. Guadagniamo in altre parole un punto di osservazione che prima non avevamo. Quella esperienza sensoriale o mentale che prima riempiva completamente la scena, ne lascia ora una parte alla coscienza osservante. Non è più sola. Non è più inevitabile. Un pensiero per quanto ripetitivo è solo un pensiero, per quanto condizionante, se c’è uno spazio dal quale lo si può osservare, esso comincia a perdere quella caratteristica di verità che inconsapevolmente tendiamo ad attribuirgli. E perde la caratteristica della trasparenza: ora, in presenza di un evento mentale, siamo consapevoli della sua presenza.
Questa facoltà può essere appresa e in questo senso la meditazione è un processo di apprendimento.
E’ un percorso tracciato più di 2500 anni fa nel famoso sutra SATIPATTANA. Il metodo che ne scaturisce è la cosiddetta meditazione vipassana.
Il corpo (e successivamente la mente) viene considerato nella sua valenza di luogo di osservazione e di pratica. La meditazione vipassana mette in primo piano il corpo come campo di osservazione ma principalmente come luogo abitato da processi poco conosciuti se non addirittura ignorati, ma comunque fondamentalmente inconsapevoli. Nel portare a consapevolezza questi processi (il respiro, le sensazioni, la postura ecc) si opera un addestramento mentale della facoltà di dirigere e sostenere l’attenzione in modo deliberato. Questa capacità, quella di dirigere e sostenere l’attenzione è il primo passo nella pratica ed è uno step di grande importanza. Questo training viene poi applicato anche ai processi mentali con l’intento di mettere in piena evidenza la natura dolorosa, impermanente e priva di esistenza inerente di tutti questi processi. Il meditante così addestrato non cade più nella ipnosi di cui è normalmente preda ipnosi che nutre l’avidità, attaccamento e avversione (gallo), l’aggressività (il serpente) e l’ignoranza (il maiale).
Questa è l’unica via, o monaci, per la purificazione degli esseri, per superare pena ed afflizione, per eliminare dolore e sofferenza, per raggiungere il giusto sentiero, per la realizzazione del Nibbana, ovvero i quattro Fondamenti della Consapevolezza. E quali sono questi quattro ? In questo insegnamento un monaco si dedica alla contemplazione del corpo, con ardore, chiaramente comprendendo e mentalmente presente, avendo vinto la cupidigia e la afflizione nei riguardi del mondo; … (Satipattana sutta)
Il metodo che viene qui proposto è un metodo progressivo, lo sono tutti quelli proposti dai sutra, che conduce ad uno stato di ascolto, silenzioso e neutro. Osservare tutti i fenomeni separandoli dalla nostra reazione ad essi. Avvicinarsi in questo modo alla realtà nuda e cruda. Sostituire nel tempo una identità fondata sul “mi piace – non mi piace” con una basata su una consapevolezza imparziale e non giudicante. In fondo a questo itinerario una profonda realizzazione. Non un aggiustamento, una armonizzazione, un miglioramento ma una profonda rivoluzione del nostro rapporto con le cose: vedere le cose per quello che sono realmente, sconfiggere definitivamente l’ignoranza. E’ questo il significato più autentico del termine vipassana.
Quello che viene poco preso in considerazione in questo approccio e, almeno per quanto riguarda la mia esperienza, nel modo in cui questo metodo viene insegnato in occidente è l’uso del corpo nella sua dimensione energetica. Ciò che non viene molto considerato è come usare il corpo per favorire e sostenere il processo di apprendimento. E’ un elemento che ha nell’approccio normodinamico un posto significativo e, anche se non mi soffermerò su questo dobbiamo considerarlo con attenzione. Ma ci sono altri due elementi che nell’insegnamento di Paolo Menghi emergono come primari nel processo di trasformazione dell’individuo. L’uso della relazione e la funzione della guida.
Scegliere un maestro vuol dire, scrive Paolo Menghi, affidargli il compito di tenerti continuamente sveglio e questo equivaleva a dargli il permesso di violare la tua quieta routine di ogni giorno.
Quello che faceva metodicamente con noi era quello di metterci quotidianamente in contatto non solo con i nostri limiti ma con la falsità delle nostre argomentazioni. Falsità che operavamo innanzitutto con noi stessi. Ogni persona ha i suoi modi, non sono infiniti ma ognuno ha i propri, di riportarsi nei momenti di crisi, di dubbio, di difficoltà in una zona di sicurezza psicologica. Possiamo giustificarci, minimizzare, attribuire ad altri la responsabilità di quello che succede, possiamo generalizzare impropriamente, possiamo ancorarci a false idee di noi stessi e degli altri. Gurdjeff li chiamava ammortizzatori. Facciamo una quantità di queste operazioni nella nostra vita quotidiana. Le facciamo e, per lo più, non ce ne accorgiamo. Ci rifugiamo in luoghi comuni o in giudizi precostituiti. Siamo così fortemente intrisi di queste modalità automatiche che se avessimo la sincerità e il coraggio di andare fino in fondo nell’osservazione di noi stessi, anche di un solo minuto della nostra esistenza intima questi verrebbero alla luce. Ma non possiamo farlo. Non possiamo farlo da soli. Da questo nasce l’esigenza e la necessità delle scuole. E’ solo all’interno di contesti relazionali dedicati che possono emergere, nella loro crudezza, le modalità più nascoste con cui regoliamo la nostra relazione col mondo. Possiamo essere aiutati dall’altro nello svelare noi stessi, nel prendere coscienza e atto delle varie personalità che ci abitano? Delle falsità e delle scissioni? Possiamo pervenire ad un rapporto più vero con noi stessi e con gli altri? E disattivare, prendendone coscienza, delle istanze distruttive che ci abitano? Questo compito è affidato, nel metodo normodinamico, alla meditazione relazionale e al karma yoga. E’ il compito di quella “alleanza per la verità” che nella meditazione relazionale si cerca di promuovere. E’ in alternativa alle complicità e alleanze che siamo soliti frequentare nella vita ordinaria. Meditiamo per diventare meno pericolosi. Il karma yoga. Col karma yoga siamo cresciuti tutti. Nel primo gruppo di normodinamica (così si chiamavano allora) al quale ho partecipato buona parte del tempo lo abbiamo occupato nel trasloco del centro studi del mandala. Certo la spregiudicatezza non mancava. Tu pagavi e ti veniva chiesto di lavorare! Ma quante cose emergevano in quel contesto! Quante domande avevi l’occasione di fare a te stesso e quante cose di te emergevano nella loro evidenza e non potevano non essere viste. Conoscere le varie persone di cui sei fatto e superarle. E’ un superamento che non avviene attraverso la cancellazione delle parti, la scelta dell’una a scapito delle altre o la loro sublimazione. Questa era la sfida. La sfida era l’integrazione. La sfida era ed è quella di riconoscere, accogliere, accettare quello che vedevi, ma il momento più significativo era quello di usare di quello che trovavi. Era nell’uso che sperimentavi la possibilità di non giudizio, di non censura. Era nell’uso che ti affacciavi veramente ad un percorso di integrazione.
Tutto questo è lavoro. Ci si rimbocca le maniche e ci si sporca le mani. E per me questo è meditazione. Ma meditazione è anche però quell’incontro istantaneo, diretto, totale con una dimensione più ampia. E’ un contatto estatico, inclusivo e totalizzante nel quale la persona è totalmente in contatto con sé e percepisce una perfezione anche nella imperfezione e nella inadeguatezza. Quel contatto è quasi sempre veicolato da un maestro, dalla connessione con lui. Chi ha questa esperienza ha, io penso anche una responsabilità. Verso se stessi e forse non solo.
Estasi è quando armonia dice al caos: benvenuto!