Da alcune settimane abbiamo avviato un corso di Yoga e meditazione presso il carcere di Rebibbia a Roma, un progetto nato dall’intento di condividere la pratica con chi, pur avendone bisogno, non ha possibilità di accedervi. La visione del film-documentario Doing Time Doing Vipassana, che documenta l’introduzione della meditazione in un carcere indiano, ci ha fornito l’ispirazione iniziale e ci porto’ a realizzare un corso di meditazione nel 2010 nel carcere di Regina Coeli. Fu un’esperienza intensa e utile per i detenuti che lo seguirono e anche per gli insegnanti che lo guidarono. Oggi quella esperienza trova il suo proseguimento nel progetto Rebibbia.
Il progetto Rebibbia, portato avanti in forma di volontariato, è stato accolto con interesse dai responsabili del carcere, che ci hanno affidato il reparto di Alta Sicurezza della sezione femminile.
Il reparto è in un piccolo fabbricato indipendente, all’interno del complesso carcerario ma distaccato dalle altre sezioni. Per motivi di sicurezza, alle detenute non è permesso lavorare all’interno del complesso (in cucina, in biblioteca ecc.), come invece è possibile per le altre sezioni, e le attività loro offerte sono molto ridotte.
Ne risulta un isolamento particolarmente marcato, al quale si affianca una continua invasione degli spazi personali da parte delle compagne di detenzione, delle regole carcerarie, dei sistemi di sicurezza. Si respira un senso di compressione e ristagno.
Il corso, nonostante si svolga fuori sede e con particolari accortezze, è a tutti gli effetti un corso dell’Associazione. C’è un nucleo di detenute che praticano regolarmente, altre si affacciano saltuariamente; c’è curiosità e rispetto per la pratica, sia da parte delle partecipanti che della sicurezza; durante la classe non ci sono interruzioni, dopo c’è un momento di condivisione, uno spazio per elaborare e decantare quanto avvenuto in classe, e per riaccostarsi alla routine quotidiana tenendo acceso quanto vissuto in classe.
Le detenute praticano per un’ora, una volta alla settimana; la pratica è per loro un contenitore sicuro e libero da pressioni, in cui recuperare un contatto intimo con se stesse. Un momento di disintossicazione — fisica, emotiva, mentale. Uno strumento per ricercare, nel contatto con il proprio corpo, un senso di stabilità e silenzio interiore, per fare spazio tra i grovigli mentali ed emotivi, particolarmente pressanti nella loro condizione.