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Un’esperienza normodinamica tra servizio e relazione d’aiuto.

Estratto dell’intervento in occasione della giornata di studi S.I.N.D. per il ventennale della morte di Paolo Menghi. Roma 27 ottobre   2018.

In questa relazione descriveremo due interventi svolti all’interno di strutture carcerarie tra il 2012 e il 2014. Il primo è relativo a un corso di meditazione della durata di tre mesi, nel carcere di Regina Coeli a Roma, condotto da Nicola Vitale con la collaborazione di Stefania Merzagora nel 2012. La seconda esperienza è relativa a un lavoro, prevalentemente a mediazione corporea, condotto da Stefania Merzagora nel carcere di Rebibbia a Roma nel 2014.

Roma, carcere di Regina Coeli. Nicola Vitale

Siamo stati ispirati, nell’ideazione di questo progetto, dalla visione del documentario ‘Doing Time Doing Vipassana’, dove si narra e si documenta un’esperienza che risale alla fine degli anni ’90 nel carcere di Tihar a Nuova Delhi promosso dalla direttrice del carcere, Kiran Bedi, persona sicuramente di ampie vedute, all’interno di un programma di riabilitazione dei detenuti, di contenimento e limitazione delle recidive. E’ la stessa direttrice, nel corso del documentario, che dice: “Siamo tutti carcerati, condannati a vita, siamo tutti reclusi in noi stessi, ostaggi della nostra rabbia e della nostra paura … una linea sottile separa noi, dagli individui reclusi dietro le sbarre di una prigione”. E così ci siamo chiesti: se la Normodinamica è un approccio che promuove l’evoluzione dell’individuo favorendo una profonda presa di coscienza di se stessi, perché non portarla laddove sembra essercene maggiormente bisogno? In un luogo dove alla reclusione dei ‘colpevoli’ si dovrebbero affiancare percorsi di riabilitazione, reinserimento sociale, educazione e sviluppo personale? Può la pratica meditativa, ci siamo chiesti, entrare a far parte non secondaria di quei percorsi? E così, un po’ mossi da una certa esaltazione, completamente ignorando l’ambiente nel quale ci saremmo introdotti, la disponibilità e le resistenze che avremmo incontrato, abbiamo cercato una chiave per accedere a quel mondo. Seguimmo un breve corso riservato agli operatori esterni per renderli edotti sulle regole e sui protocolli da rispettare e, da lì a qualche tempo, iniziammo il nostro lavoro.

Il carcere di Regina Coeli è un carcere maschile dove la popolazione è prevalentemente costituita da detenuti in attesa di giudizio. La mobilità ed i trasferimenti sono numerosi, e per questo abbiamo svolto il nostro intervento con un gruppo non solo abbastanza eterogeneo, ma anche, in buona parte, variabile di settimana in settimana. Solo pochi di loro hanno seguito gli incontri con regolarità. Potevamo disporre di una piccola sala dove si svolgevano le attività ricreative, ingombra di oggetti e piuttosto sporca. La preparavamo ogni volta accatastando i tavoli e le sedie in esubero da un lato e spazzando il pavimento.
Qualcuno di loro si offriva di aiutarci. Quando ci chiesero se il nostro lavoro fosse retribuito e noi rispondemmo di no, fu come se una porta, tra loro e noi, si dischiudesse e quella atmosfera di vaga diffidenza che c’era stata all’inizio di colpo si diradò. Portavamo brevi sessioni di lavoro corporeo seguite da meditazioni spesso guidate, e da uno spazio dedicato al dialogo.
Chi ha vissuto immerso nel progetto di Paolo Menghi, nel suo Mandala, è cresciuto immerso nel Karma Yoga, che è stata una delle esperienze centrali di quegli anni ed anche una delle pratiche a cui con maggiore difficoltà siamo stati in grado di dare un seguito. Come numerose altre pratiche proposte in quegli anni, anche il Karma Yoga era mutuato da altri contesti. Questo in particolare dall’universo della filosofia indiana dove costituisce uno dei quattro metodi (Bakti, Karma, Jnana, Raja), delle quattro vie, seguendo le quali si può pervenire alla liberazione dell’individuo dai vincoli e dalle limitazioni che la natura stessa impone all’umano, vincoli identificati nell’illusione e nella ignoranza di cui l’uomo è vittima. Ogni mattino prima della sadhana si leggeva lo scritto “Karma Yoga Samadhi” nel quale si esorta all’azione svincolata dall’idea di ritorno personale, liberandosi dall’idea di conseguimento, di successo o di fallimento.
Il Karma Yoga, lontano dall’essere un esercizio di composta operosità o di ergoterapia, era, per Paolo Menghi, un rivelatore di energia, attitudine e orientamento personali, a volte molto più efficace dello scambio verbale. E’ infatti nelle azioni, insisteva Paolo Menghi, che la persona si mostra, sicuramente più che attraverso le parole. In questo agire al quale venivamo sollecitati, dai progetti creativi alle più umili manutenzioni, dai compiti svolti in solitudine a quelli collettivi, l’individuo si trovava intimamente e nel rapporto con gli altri, di fronte a se stesso e anche a quelle parti di sé che per convenienza, opportunità o altro era solito nascondere o nascondersi.
Mi sento di concentrare l’attenzione su questo aspetto del Karma Yoga perché ha a che fare con l’esperienza di cui vi sto parlando. Anche noi infatti ci siamo trovati a confrontarci con le aspettative profonde, e a volte nascoste, che ci animavano; sui compensi, sul ritorno che questa attività ‘offerta’ poteva fornirci. E ci ha condotto anche a incontrare non solo le motivazioni del nostro agire, ma anche le energie che ci muovevano nel nostro aderire o prendere le distanze, nella formulazione dei nostri giudizi.
Quella che si è instaurata, tra noi e i detenuti, è stata di fatto una relazione di aiuto anche se mancava un elemento importante per una relazione di questo tipo: la richiesta stessa di aiuto. Ci siamo infatti trovati di fronte a persone che partecipavano per ingannare il tempo, per ‘evadere’ per un’ora dalla monotonia di quelle giornate sempre uguali. Quello che
hanno trovato è stato al contrario un invito ad essere presenti, a cercare un contatto con se stessi, a uno stare e non a un evadere. Il veicolo perché questo invito potesse essere accolto è stato il sincero interesse da cui eravamo animati, l’ascolto empatico che questo ha prodotto, e, soprattutto, la neutralità di quell’ascolto.
E così il microcosmo creato in quella piccola stanza è diventato un luogo riparato, ma non isolato, dall’aria densa di fumo dei corridoi, dal frastuono, dalla presenza così incombente del metallo (nei cancelli, nelle sbarre, nelle porte, ovunque) dove poter tentare una piccola e ardita impresa: l’impresa di guardare dentro se stessi senza fuggire. In quel tentativo di ascolto del respiro, nelle difficoltà incontrate, per qualcuno di loro è stato possibile uscire, per qualche istante, dai codici di relazione imposti da quell’ambiente, dalla coazione dei comportamenti, dalla ossessività del pensiero che gira in tondo in un continuum di circoli viziosi e, in alcuni casi, porsi delle domande. Domande su loro stessi, sull’esistenza e sulla traiettoria che aveva avuto fino ad allora e su quella che desideravano avesse in futuro. Ci siamo trovati di fronte alla grande complessità che abita quel mondo, alla sofferenza della reclusione, alla schiavitù imposta dai ruoli e ci siamo dovuti arrendere di fronte all’evidenza della piccolezza della nostra presenza e del seme che abbiamo portato in quelle persone. Piccolezza ma non inutilità. Quello spiraglio che alcuni di loro hanno aperto in loro stessi, quello è stato il nostro compenso, nelle parole di Luca (uno di loro) scritte in una lunga lettera sgrammaticata che mi ha inviato dopo il nostro ultimo incontro, nelle strette di mano calorose che accompagnavano la fine di ogni incontro, prima che i cancelli per noi si aprissero e poi si richiudessero alle nostre spalle.

 

Roma, carcere di Rebibbia. Stefania Merzagora

Ho portato un intervento di Yoga Evolutivo a Rebibbia nel 2013/14, nella sezione di Alta Sicurezza del carcere femminile. Ho lavorato con un piccolo gruppo di 5 detenute per circaquattro mesi, incontrandoci una volta a settimana. La sezione di Alta Sicurezza accoglie detenute con condanne di varia entità (da attesa giudizio a condanne per ergastolo) ma con un regime speciale di isolamento per la natura dei loro reati, che sono di due tipologie specifiche: reati politici e reati legati a mafia/camorra. La struttura di detenzione è un piccolo carcere all’interno del carcere, un fabbricato recintato e separato dagli altri, e per via del regime di isolamento le detenute non possono accedere ad attività concesse alle altre (lavoro, studio, biblioteca, attività ricreative). Di fatto quell’anno il mio corso era l’unica attività presente nella sezione.
Il gruppo era formato dalle 4 detenute “politiche”, e una tra le “mafiose” (così erano definite e si auto-definivano). Le detenute politiche hanno mostrato molto interesse e coinvolgimento nel lavoro. Mi hanno lasciata entrare nel loro mondo, nelle loro attese, speranze e delusioni. Era un gruppo piccolo e unito, si sostenevano a vicenda con cura e sollecitazione.
Tra le detenute mafiose vigeva una stretta gerarchia, avevano il permesso di partecipare solo previo benestare delle “cape”. Tra di loro solo una ha seguito con continuità; essendo la moglie di un boss godeva forse del privilegio di una maggiore autonomia di scelta. E’  stata accolta nella “cerchia” delle politiche e si è nutrita del loro sostegno, ma ha comunque mantenuto un grado di partecipazione e implicazione marginale.
Nel nostro primo incontro, quello che ho percepito e che è rimasto come sensazione di fondo è stato un senso di implosione e di compressione, di forte ristagno. Fisicamente erano molto diverse, per età e per struttura corporea, ma avevano tutte un punto in comune: una rigidità molto marcata a livello del torace. Erano bloccate nel respiro, e nei movimenti si confinavano in spazi ristretti. Avevano inoltre la pelle spenta, che mostrava segni di intossicazione. Mi chiedevano una pratica “energizzante”, che in qualche modo corrispondeva alla sensazione di ristagno ed intossicazione che emanavano.
Abbiamo cominciato a lavorare inizialmente proprio sull’intossicazione e sullo spazio: prendere spazio era qualcosa che desideravano ma facevano difficoltà a concedersi. Mi è sembrato che la loro condizione di prigionia e di isolamento, dove lo spazio vitale è sacrificato, le avesse portate ad auto-confinarsi anche lì dove avrebbero potuto concedersi un grado maggiore di libertà, anche se solo a livello di movimento corporeo.
Poi ho fatto alcuni tentativi, prevalentemente attraverso il respiro, di contattare la zona del torace. Tuttavia mi sono tenuta sulla soglia: mi sembrava che la loro rigidezza fosse funzionale, che le proteggesse dal contatto con emozioni troppo difficili da processare, che le aiutasse a sopravvivere in un ambiente costrittivo, limitante, soffocante. Se quel  diaframma si fosse aperto, cosa ne sarebbe uscito? E come lo avrebbero processato? Al termine della lezione, tornavano in un regime isolato, non c’erano supporti psicologici né di altro tipo nella sezione, inoltre la mia presenza non era mai garantita. Non mi sentivo in grado da sola di contenere e accompagnare un processo che andasse ad incrinare quella
schermatura. Qualunque cosa fosse sollecitata dalla pratica, sapevo che avrebbero dovuto processarsela da sole.
Dopo un paio di mesi c’è stato uno scontro interno e le due categorie sono state divise. Le politiche sono state spostate in un’ala della struttura chiusa a chiave, senza accesso al cortile, alla sala comune e alla palestra. Contemporaneamente, nell’arco di un paio di settimane, tre di loro sono state trasferite. E’ rimasta una sola detenuta, completamente isolata, e a volte non la facevano uscire nemmeno per la lezione di Yoga. La relazione che abbiamo instaurato è stata molto intensa: lei fin da subito ha mostrato un grande assorbimento e interesse nella pratica. Intuiva di poter usare quello spazio non come puro passatempo, faceva domande, cercava di capire cosa le succedeva dentro, cercava una chiave di lettura per se stessa. Si era agganciata a quell’ora settimanale con una forza disperata.
Mi sono sentita chiamata, per lei ma anche per le altre, a fornire uno spazio in cui potessero esistere le loro istanze e contraddizioni. Da un lato cercavo di seguire il principio normodinamico di integrazione, di tenere insieme le polarità conflittuali sostenendone l’attrito piuttosto che scegliere la scissione. E sentivo che loro avevano bisogno di uno sguardo includente, che comprendesse sia la parte “buona che mi mostravano”, che i lati oscuri e violenti che le avevano portate li. Dall’altra parte invece, mi sono confrontata con l’Istituzione carceraria e la sua proposta di un modello di divisione netta, una sorta di “scissione istituzionalizzata”. Mi sono trovata come all’interno di una grande scenografia, dove la divisione tra bene e male era sancita da sbarre, vestiti, ruoli, comportamenti. E questa proposta era come il richiamo di una sirena che mi diceva: “prendi parte, rilassati e  sarai al sicuro”. Mantenere aperta un’intenzione di integrazione, in quel contesto, è stata una vera sfida.
Avevo visto “The Experiment”, un documentario su un esperimento condotto a Stanford da Philip Zimbardo: lo scopo era di studiare in che modo un contesto sociale possa condizionare il comportamento individuale. Nei sotterranei dell’Università è stato creato un finto carcere, e persone volontarie sono state assegnate in modo casuale al ruolo di detenuti o guardie. Le persone coinvolte, persone comuni con vite normali, pur sapendo che si trattava di una finzione, si sono trasformate, scatenando rivolte, violenze e umiliazioni tali da costringere gli studiosi a sospendere la ricerca. Ho trovato tra le parole di Paolo Menghi una citazione che mi è sembrata pertinente al mio vissuto: Bisogna ora alzare lo sguardo al livello delle istituzioni sociali. È qui che i ruoli prendono forma e trovano consenso e legittimità. Tutte le organizzazioni sono impegnate nello sforzo di imporre ai propri membri una precisa immagine, proponendo ai singoli una concezione di sé consona ai valori, alle regole, e alle finalità che le caratterizzano. […] Come se la “natura individuale” si denudasse al cospetto della struttura. Consegnata al potere di chi la identifica.
Penso che per chi decida di portare un intervento in un’istituzione come il carcere, questo sia un tema delicato da tenere presente, sia come lavoro di personale confronto con le proprie polarità, e soprattutto perché un lavoro di inclusione, piuttosto che di scissione, può portare nutrimento e giovamento a chi in carcere ci deve vivere.